In francese significa "Ciao Tommaso".
Essere stupidi è una benedizione, a volte.
A volte, Nicola.
Attenzione: il seguente articolo è prolisso & autoreferenziale. Leggere solo se veramente convinti.
A volte, Nicola.
Attenzione: il seguente articolo è prolisso & autoreferenziale. Leggere solo se veramente convinti.
Cap. 1: The French Girl in Pisa
Non so esattamente quando inizia l'estate. Se il 21 giugno, il giorno dopo che hai finito gli esami, il giorno in cui torni a casa, o il giorno in cui sono liberi anche i tuoi amici.
In ogni caso, io mi son rotto e me ne vado. Comincia una prima fase direi, una il cui apice viene raggiunto in una piccola città toscana, in cui si consumano atti di depravazione e crimine, in primis la laurea di Andre. Ma con ordine.
Prima c'è tempo abbondante per riabituarsi al disagio ponentino, fatto di uscite in centro che si bruciano fra tè al limone alle macchinette del rondò Garibaldi e panini alla merda ai bar della porto, intorno a mezzanotte. L'arrivo è volutamente graduale, passo da Dario a sbirciare le sue terrificanti creazioni, e prendo dimora fissa sul marciapiede di fronte al negozio di Cecco.
Con Wayne ci dibattiamo come pesci fuor d'acqua in un'estate umida e un po' maleodorante, chiedendoci quando sarebbe iniziata davvero, mentre passiamo a notte fonda nei vicoli puzzolenti di fritto dietro i ristoranti, o ci lanciamo su per le mulattiere polverose alle due di notte, spuntando a Coldirodi che, non ho idea del perché, ha più vita sociale del centro di Sanremo.
- "Vado a prendere le sigarette"
- "Dove?"
- "A Ospedaletti. Vieni?"
- "K"
Questa è l'unica cosa che riesco a pensare quell'orrendo giovedì, ricordando quanto era perfetta solo tre giorni prima, quando mi perdevo fra i vicoli mangiando una fetente "pizza" alla francese.
Stride così tanto con quello che ho visto.
Non ricordavo di essere diventato così fighetta da commuovermi al vedere un pino marittimo.
C'è una stradina che prendo sempre, la weapon of choice quando si tratta di giretti compulsivi dopo che le pupille ti sono diventate quadrate per le radiazioni dello schermo del pc.
Al di là della galleria le montagne sono immense, un qualche sintomo di quello che verrà. La commozione per i pini marittimi si trasforma in moccolo quando la moto sgondola sulle buche formate dalle loro radici. Gli ammortizzatori, quelli sì, sono per fighette.
Due scaccini. La Primavera borbotta e tossisce, ma almeno ci scarrozza per il centro, in una serata insolitamente fredda per luglio, e per Roma. Carlo's in town. Neanche arriva a casa e già mi ha fatto crepare dal ridere raccontandomi di Stefano De Grandis, mortodifiga in discoteca. "Beh, obiettivamente lui è ridicolo..ha 80 anni e ancora fa i tavoli con le diciottenni".
Poi tutto finisce. I tuoi stessi sogni ti sparano a tradimento, e tutto ricomincia daccapo. Il delirio, la lontananza, le parole fraintese, o mai dette, e i ritorni a casa con gli occhi lucidi.
Smonto le gomme per cambiarle, si rompe il portatarga. Scopro che il disco è piegato, lo trovo usato e cambio anche quello. Vado a rimontare tutto, la gomma nuova è già sgonfia perché la sera prima mi è volata dal motorino mentre la trasportavo - ammaccando la portiera di una macchina nel frattempo: cambio anche camera d'aria. Qualcosa mi vuol fare rimanere. Mi vuole marcito qui. Che cosa, mi chiedo, mentre mi angoscio per una situazione che sta andando giù come il Titanic. Non promette nulla di buono, eppure non so frenarmi, mi fido di nuovo. Quello che segue è una delle serate più idiote nella storia dell'idiozia, finita con un tramezzino stantio, mangiato sulla moto davanti ad un bar che non sopporto. Nice job.
Sulla strada passo per Siena. Uno di quei tanti posti che per anni si ignorano, poi improvvisamente ti capita di passarci, e scopri che son fighissimi. Mi rifugio fra le mura, e faccio una delle mie cose preferite al mondo, ovvero camminare per una città che non conosco mentre mangio.
Stavolta non sono molto lungimirante, mi faccio tentare da un paio di pizzette venefiche condite direttamente con la gastrite, quando dopo venti metri c'era un messicano da portar via. "Merda per merda" (cit.), potevo sfondarmi direttamente con un paio di tacos radioattivi.
Deh.
Con un bolo alimentare ingolfato nella trachea ritorno al motorino, riprendo la strada verso Nord.
Monteriggioni. Una volta ci andai per il matrimonio di Marica.
Complice l'aiuto di un certo Jacopo, un giovane motociclista che si ferma a darmi indicazioni per tagliare attraverso la campagna toscana e prendere alle spalle Pontedera, riesco ad arrivare all'adunanza. Ad accogliermi trovo Andre, finalmente alla vigilia della liberazione-laurea, sollevato e sorridente, anche se con una certa qual tensione per l'appuntamento dell'indomani.
Una strana legge ormai vuole che nonostante il ritardo che accumulo, anche intenzionalmente, finisco sempre per arrivare per primo. Ma Brigg e Wayne presto sono lì, e piano piano arriva tutta la ciurma. Brigg si lancia in piscina a cassadamorto urlando "Tooop!". Mi ricorda la gita di quinta elementare, in cui si lanciò sul letto urlando "Mortadellaaaa!", sulle note di "Everybody" dei Backstreet Boys, e spaccando una doga di legno. Sono a casa.
La serata va in crescendo, soprattutto quando decidiamo di invadere il centro di Pisa, e setacciare i bar alla ricerca del Kraken. Lo troviamo finalmente in vetto, baccagliando in modo molesto le bariste, ingollando quello che sembra essere petrolio. Sull'onda della decima birra, ricordo vagamente di aver seguito gli altri verso una friggitoria, dove Piz ha pensato bene di farsi una frittura di calamari con maionese, per nutrire il Kraken immagino, che alle due di notte aveva fame. Poi tutto sfuma. Mi ricordo un profumo, e un sapore, e una persona che non conosco fra le mie braccia. Ricordo di aver fatto pipì dietro un cartellone, e un rumore come di segheria che si accende, più tardi quella notte, ma su quest'ultimo potrei sbagliarmi.
La mattina dopo un treno merci mi corre in testa. Se chiudo gli occhi non smette di girare. Ma a parte questo, le cose hanno ripreso i loro soliti contorni. La segheria era solo Piz, che russava in mutande sul divano. Quanto di quello successo la sera prima era vero, e non solo una perfetta allucinazione? Ma il numero di telefono che mi ha dato è reale. E' esistita davvero, quella tipa francese, che mi parlava della luna vista dal suo balcone. Wow. Forse non tutto è perduto, se ci sono serate così.
La giornata è splendida. Andre alla discussione spacca, non solo per il fatto che è l'unico a parlare nel microfono. Alcuni di noi sono ridotti da far schifo, ma ci teniamo in piedi in qualche modo. La famiglia Molinari, splendida e gentilissima, offre di tutto e di più. Manchiamo la proclamazione per un caso fortuito, ma la festa prosegue per tutta la giornata. In piscina, al residence, e infine in uno spettacolare agriturismo perso nella campagna pisana, dove fuochi illuminano la notte, e qualche goccia rinfresca la serata.
E' stata una lunga corsa, ma alla fine Andre è arrivato. C'è un certo qual sollievo nei suoi occhi, una leggerezza in più nei suoi gesti. E' l'ultima notte che passiamo nel suo prestigioso B'n'B, sede delle adunanze storiche degli anni scorsi.
Qualcosa finisce stasera. Inizia qualcos'altro.
Sotto una lieve pioggerellina estiva saluto Andre e gli altri, o chi di loro è sveglio. Nicola si è beccato il letto degli stronzi, e ancora non è fra noi. Mentre giace comatoso e gli fotografo le chiappe capisco una cosa: l'estate, ora sì, può cominciare.
Cap. 2: Maui Tikitiki-o-Taranga
Lo sapevate che l'isola del Nord della Nuova Zelanda in realtà è un pesce? E non uno qualunque, ma il pesce pescato da Maui in un tempo dimenticato, grazie ad un amo magico ricavato dalle ossa della sua antenata; e tutto questo è stato possibile soltanto perché Maui, a differenza dei suoi fratelli, ha avuto per tutta la sua esistenza, l'insistenza di andare in posti che non conosceva. Era davvero un tipo ammirevole. Poco importa che abbia torturato il cognato trasformandolo in un cane, solo perché pescava pesci più grossi dei suoi.
Ora, il colle di Langan non è esattamente un posto sconosciuto o mai visto, insomma lo bazzichiamo da quasi dieci anni, ma quello che importa è muoversi, giusto? Giusto? Sembra che da qualche parte ci siamo persi per strada qualche elemento. Uno che ci insegnava che forse il distacco, o l'affetto, o l'amicizia, o persino l'amore, non dovrebbero essere cose così traumatiche come sembrano. Leghiamo tutti questi concetti, non so per quale motivo, alla stasi. Li rifiutiamo, perché sembrano volerci ancorare ad un luogo, ad una sola persona. La lingua non aiuta: "mettere su famiglia", col significato di costruire qualcosa, mettere su una casa, un luogo statico; "to settle down", quando "to settle" significa "fermarsi", a volte persino "accontentarsi". E se invece tutti questi concetti, tutti questi sentimenti e fenomeni dell'animo, fossero legati ad un tempo ancestrale in cui dovevamo proteggerci a vicenda, e muoverci continuamente, e camminare a piedi nudi in una pianura in cui non eravamo la specie dominante?
Deliro pensando alle gesta di un uomo semidivino capace di creare vita e luoghi con lo spostamento, e faccio del mio meglio per appartenere all'universo. Un po' dura, quando il massimo che puoi fare è farti venire lo squaràus con un panino al plutonio in un bar di Dolceacqua.
Panini, panini per tutta la vita. Va che posto però. Attempati turisti tedeschi scendono meravigliati dal pullman e rimangono compiaciuti a guardarmi accendere la moto. Mormoro "Ridateci la Gioconda, bastardi"; la moto si accende con un tuono e a tre di loro parte una sincope.
Mi piglia una scoppia clamorosa per gli Abba. La notte vado a dormire e sogno lunghe camminate insieme a Frida, nei boschi innevati della Svezia. Mi chiedo se, a tempo debito, non avessi fatto meglio a restarmene lì; fa freddo, ma alla fine lo stufato di renna non è così male, e i chopper sono tra i migliori sul pianeta. Poi grazie a Dio ho l'accortezza di farmi la pasta col pesto di quella drogheria in centro. Tutto impallidisce, al confronto con quella pasta; persino le cromature di quel Panhead dei Jokers.
Ma c'è qualcosa, una spina nel fianco in ogni momento. Un pensiero che rode dentro, un'ossessione che tormenta anche questi giri più piccoli, e dà una luce differente a cose che avevi già visto...la cosa più strana è che ha un profumo. Un odore, come di fieno bagnato, di pioggia sull'asfalto, di benzina e fumo in montagna, nebbia tra le foreste. Qualcosa ci attende. Attendiamo anche noi.
Nel frattempo sale il fomento. Sale da piogge che istigano la ferocia, da immagini in movimento, da corse lunghe e letture crudeli. "Io non sono della vostra razza. Vengo da un clan lontano, e porto con me una verità mostruosa: l'autenticità della vita, la conoscenza del ritmo. Spazzerà via per sempre le vostre dimore statiche del tempo e dello spazio, inserite in piccole ordinate caselle. Il mio cavallo è più selvaggio dei vostri bolsi macchinari, il suo zoccolo di corno più pericoloso delle vostre ruote di ferro".
Il fango domina la mia fantasia, un fango primordiale da cui qualcosa di fatale è nato. Milioni di girini che gridano e urtano e milioni di anni dopo, esce fuori un Panshovel del '69, forca stretta e faro largo. Fango sulle ruote. Forse bevo troppa birra. Con Brigg e Nico ci sbattiamo disperati sulle cime vicino Nava, e cosa ci troviamo sopra? Fango.
Rendetevi conto che riusciamo a creare un mostro, semplicemente dal saluto di un bambino per strada. Ci passa accanto, salutando un suo amico dal balcone: ma è girato di tre quarti col collo, e nell'urlare "Ciao Tommaso!" la voce gli va in falsetto una quarantina di volte. Aspettiamo che si allontani, poi ci rotoliamo in terra come degli idioti. Perché siamo. degli. idioti. Ma Dio sa che questo aiuta, e il fango piano piano si scioglie e ridiventa terra solida, alla luce del sole che è tornato.
Tornano le api all'alveare, e tornano gli altri dalla diaspora. Finalmente si può ragionare del viaggio che stiamo per fare, e finalmente c'è qualcun altro a tirarmi fuori dal mio ennesimo periodo di auto-assorbimento, che dura da 26 anni. Ora siamo di nuovo una compagnia. La Compagnia del Bordello.
Cap. 3: La queue de renard
Credevate eh, che sarei andato avanti a oltranza, a blaterare di rincoglionimenti dettati da lattoni da 1l di Faxe? E' esattamente quello che farò, in effetti, ma qui il tempo si dilata, come nell'avventura in cui Maui va a menare a sangue Tama-nui-te-Ra, e dunque mi abbandono alle memorie esilaranti di quei giri d'agosto.
Il randevù è al solito posto, alla solita ora. Ci siamo tutti, o quasi: Ca non riesce a venire, Sax è costretto alla defezione. Ma il gruppo è carico a pallettoni, le moto pure, l'aria è elettrica, o forse è solo quella fagiolata alla texana che mi sono fatto la sera prima.
Alig grazie a Dio non si presenta con una sella in ecopelle quest'anno, ma l'equipaggiamento da alpino è lo stesso: zaino semirigido con confortevoli stanghe in legno e in acciaio per favorire la scoliosi, e stivali con ghette incorporate per una squamatura dei piedi ottimale alle temperature estive. Non possono mancare passamontagna sintetico e mentoniera staccabile; la cavalcatura è la gloriosa Gazzella, il suo fido Husky, moto che combina perfettamente eleganza e ignoranza come fosse una miscela olio-benza al 2%.
Piz è già pronto per traumatizzare i francesi più di quanto già non siano quest'anno.
Salendo sul Tourini, Alig ci sorprende con una tattica la cui follia è inedita persino per i nostri standard. Viaggia in fondo al gruppo, poi ci sorpassa col gas a martello e la moto in terra contro ogni legge fisica e ci lascia indietro. Dopo qualche curva lo troviamo che torna indietro, pollice teso in aria, sorriso a 90 denti: si riassesta in fondo al gruppo e ripete tutto da capo. Truly the tales and songs fall utterly short of your enormity, o Alig the stupendous.
Quest'anno splende il sole, possiamo goderci la meravigliosa discesa dal Tourini: dal versante opposto si ha la netta sensazione di lasciarsi alle spalle un paesaggio marittimo, e di accedere ad uno alpino.
Svalichiamo anche quel colle, mentre i boschi si fanno sempre un po' più scuri ad ogni passo più a nord, finché non accediamo alla valle del Tinée.
Decido di affrontare il resto dell'ascesa in modo un po' più umano e mi godo il panorama, fino all'anello in cima.
Là sotto da qualche parte sembra che un temporale si stia divertendo, ma noi siamo al sicuro.
Anche Andre e Alig se la scaprettano.
Ma dopo un po' i sassi si assomigliano tutti, ed è ora di ripartire: ci attende ancora la lunga discesa, ed un altro passo meraviglioso prima di arrivare alla meta di giornata che è Briançon, la città dei capperi. Cioè no, la città delle fortezze. Cazzo di capperi, mi escono dalle orecchie.
Manco siamo nelle camere che già giriamo in mutande per la spa, urlando come avessero aperto le gabbie, schiamazzando e lanciandoci dalle ringhiere nella piscina. L'ho già detto idioti? Siccome dei tizi non schiodavano dalla sauna, abbiamo presto abbandonato l'idea, peraltro peregrina e forse latentemente omosessuale, di chiuderci in sette nella minuscola stanza di due metri per uno. Meglio rinchiuderci dal Mc di cui sopra.
Ma vogliamo parlare del (relativo) conforto che dà il Mc, se sei un viaggiatore stanco e infreddolito? Per quanto tu possa essere disperso nelle lande più desolate, il Mc è come un porto franco, sempre pronto a imbottirti con affetto di hamburger di giornali cinesi riciclati e insalate di plastica verde.
Ci ritiriamo quindi al bar dell'albergo dove io e Piz (chi sennò) ci goliamo due birrozze prepotenti e ci facciamo pure offrire un paio di shottini di génépi dal rassegnato barista. Carichi lerci irrompiamo nella camera degli altri, cominciando a benedire con dell'acqua di rubinetto Alig che già dorme il sonno dei folli. Ma presto i chilometri e i chicken mcnuggets chiedono pedaggio alle nostre anime stanche. Mi addormento con Piz che in procinto di aprire la segheria per la notte mi promette: "Minchia Ale stanotte ti faccio due harley di legno". Poi ve la spiego, ma sappiate che in fondo in fondo, in questo ragazzo vi è del genio.
La mattina dopo siamo in piedi verso le 10. Tutti gli altri motociclisti che la sera prima popolavano il parcheggio sono andati via, il parcheggio è invaso dalle auto. Questo probabilmente perché la maggior parte dei biker al mondo va per i 70, non riescono a dormire la notte e si svegliano alle 6 per rischiare l'ipotermia all'alba sui passi.
Noi facciamo colazione con l'arroganza dei giovani, dopodiché aspettiamo una mezz'ora per fare il pieno dal benzinaio, completamente intasato di macchine e moto. Ecco perché si sono alzati tutti presto: sapevano qualcosa che noi non sospettavamo. In ogni caso, riusciamo a fare sbrenza ed ora non ci resta che aspettare il buon Alig che ha saggiamente saltato la colazione in albergo e sta rimediando con un Magnum. Dopodiché, ci dirigiamo verso nord, sempre seguendo la direttiva della Route Napoléon, sulla strada per altri due strepitosi passi alpini, il Lautaret ed il Galibier.
La valle è di una bellezza quasi struggente. Il cielo è terso, solcato da rare nuvole. Passiamo in mezzo a boschi di abeti e pini, illuminati di fiori e voli d'insetti. Sono in uno stato di ipnosi, la vista (almeno la mia) non è abituata a colori così intensi, così tutti insieme. Nel frattempo sale un discreto fresco, e ci fermiamo ad una baita a metterci uno strato in più.
Il border collie della baita esce fuori correndo e comincia a giocare con noi, si vuole far lanciare una palla intrisa di bava e chissà cos'altro. E' simpaticissimo e giocherellone, vorremmo restare lì per un bel po', ma quando gli perdiamo la palla forse è il momento di andare. Dall'altra parte della strada, il ghiacciaio che sovrasta il Lautaret domina tutta la valle, e i nostri sguardi a metà fra lo spaurito e il meravigliato.
Andre sale verso il rifugio.
Proseguiamo verso la cima, ignorando ovviamente il claustrofobico tunnel che taglierebbe la vetta, mentre Nicola spara qualche Madonna all'indirizzo di ignoti, non ricordo perché.
Sulla cima ci fermiamo per la doverosa foto di gruppo, che non vi mostrerò perché nessuna è venuta particolarmente bene, per la quale occupiamo militarmente tutto il minuscolo spazio disponibile. Montagne sorridono dietro di noi.
Il trasferimento della giornata non è particolarmente impegnativo, dunque una volta scesi dal Galibier ci possiamo permettere di menare il belìno agli elefanti per un po' (perché "menare il can per l'aia" ha fatto il suo tempo). A valle, ad esempio, troviamo delle gigantesche sculture in fieno di dinosauri, mostri e animali.
Ci fermiamo in un paesino vuoto e assonnato a mangiare qualcosina, vale a dire ennesimo paninazzo colante salse e roquefort. Le moto si riposano appoggiate al muro.
Ma fuori dalla stanza il panorama è qualcosa di meraviglioso. Una foschia azzurrina circonda le vette, tanto è limpida l'aria.
Alig e Andre si rilassano facendosi uno sterrato sulle piste da sci.
Ma un pizzaiolo si erge maestoso alla fine del paese, sul suo furgone campeggia la scritta salvifica "Pizze a domicilio": entro a chiedere se poteva farci delle pizze e consegnarcele all'albergo, risponde "No".
Ma lo lavoriamo ai fianchi, ed alla fine, facendosi aiutare dalla sua splendida famiglia di bimbe biondissime, ci prepara sette disgustose pizze rafferme che ci gustiamo al freddo in una fermata del bus.
Alla gente che passava guardandoci storto, Mitch gridava enfatico "Non abbiamo prenotato! Questo è quello che succede quando non prenoti!". Molti acceleravano il passo, ignari del pericolo a cui sarebbero corsi incontro se non avessero prenotato.
Tornando alle moto, vediamo un "colibrì" volare su una deliziosa fioriera. Estasiati dal meraviglioso spettacolo della natura, ci accalchiamo esclamando "Un colibrì! Un colibrì"; addirittura tiriamo fuori le torce dei cellulari per vederlo meglio. Solo allora ci accorgiamo che è una falena di dimensioni canine, un essere immondo rigurgitato da un qualche amplesso demoniaco. Arretriamo inorriditi all'istante, e decidiamo che per quella sera bastava così.
Il giorno dopo ci accoglie con un sole ancora più terso. Ma la bislacca politica dei lanslebourghesi sul mangiare non è cambiata: non c'è un bar che faccia colazioni, dunque compriamo brioche in un posto, e le mangiamo da un altro che invece fa le bevande.
Il programma di oggi è libero: chi vuole si va a fare un giro sul passo del Moncenisio, chi non vuole fa come il magnanimo Mitch, che va a far la spesa e si preoccupa di preparare un (finalmente) vero pasto. Una sontuosa spaghettata ci avrebbe aspettato una volta tornati giù, prima però c'è da assecondare il Dio della Montagna, che ci vuole testare con un percorso inedito.
Saliti a bomba sull'ampio altopiano che è il Moncenisio, decidiamo di circumnavigare il lago azzurro: la maggior parte del percorso è in sterrato, cosa che non spaventa Andre e Alig, ma per me e Nico e Piz, con stradali rigide o semi-naked, non è esattamente la cosa più consigliata. Ma siccome siamo scemi, e non stupidi (cit.), ci avventuriamo comunque, e ci divertiamo pure come bimbi speciali, a due all'ora sulle pietraie.
Il fatto di essere concentrati a non morire volando giù per la scarpata ci impedisce una visione che a quanto pare solo Andre riesce ad avere: l'epifania di una tizia seminuda, proprio lì in camporella, che si faceva fotografare da un ignoto fortunato.
Non ci fermiamo a Susa, vogliamo tornare a Lanslebourg: lo sterrato ci ha messo fame e a casa ci aspetta la spaghettata del Mitch. Alig vuole farsi un caffè, dunque resta indietro. Ci recupererà sul lato francese, sorpassandoci con rabbia vendicativa, sdraiando la Gazzella pressoché in terra ad ogni curva, con quello stile tipico del Gigi, uno stile da colpo apoplettico a vedere dal fuori. Per quanto riguarda il dentro, credo che sia una delle sensazioni più fighe al mondo saper guidare come Alig.
A casa ci sdereniamo con la pasta di Michi, che ogni volta riesce a superarsi, e cominciamo lo sbraco: la missione del pomeriggio è l'assalto alla piscina dell'albergo, dove avremo ulteriore prova dell'odio che prova per noi Lanslebourg.
Ci presentiamo con i costumi che abbiamo, quelli a mezza gamba, e prima ancora di riuscire a pucciare mezzo piede in acqua, un grassone a mollo come uno di quegli stronzi galleggianti nelle fogne (con tanto di occhialini e cuffia - ricordate: chiunque si metta occhialini e cuffia nella piscina di un albergo, e ancora si mette a discutere con voi, probabilmente picchia i propri figli, beve la birra calda, e si masturba pensando alle suore del catechismo), ci tiene a precisare che i costumi come il nostro sono espressamente vietati dal regolamento dell'albergo, ci vogliono gli slippini da compensazione, di conseguenza ci è fatto divieto di usufruire della piscina.
Siamo esterrefatti dalla portata dell'idiozia di quest'uomo, e dalla sua voglia di rompere le palle al prossimo, e siamo pure così stronzi da cominciare a discuterci. Ma il tutto viene risolto da Mitch brillantemente, nel senso che si presenta visibilmente brillo e ci chiede cosa c'è che non va. Glielo spieghiamo e lui risponde: "Ah non vanno bene i costumi così? Non c'è problema". Prontamente si leva il suo, rimanendo in mutande (mi chiedo quanto sarebbe stato più scioccante se sotto non avesse avuto niente), si infila l'elastico fra le chiappe e urla al tipo, "Ça va comme-ça?", lanciandosi a bomba in acqua.
Sipario: il tizio prende i figli e scappa dalla piscina; lo vediamo aggirarsi per tre quarti d'ora nella hall cercando il titolare per protestare, dopodiché lo trova e leggiamo dall'espressione del titolare che non gliene frega una ceppa dei costumi, dunque il tizio ha anche sprecato tre quarti d'ora della sua probabilmente patetica e miserabile vita.
La vittoria è nostra, e la sera la celebriamo con prepotenza nel ristorante che saggiamente abbiamo prenotato; ci sfondiamo di raclette e fonduta, col "colibrì" della sera prima che entra e terrorizza mezzo locale, e con Piz e Brigg che fanno addirittura il bis, e probabilmente gasano qualcuno nel sonno. Non io, io vado a letto per primo e vengo benedetto da Piz che mi lancia dell'acqua addosso mentre mi addormento. Oh what a day. What a lovely day.
Il giorno dopo è una splendida giornata di viaggio. Dobbiamo tornare a sud, verso l'Italia e la Liguria. Riprendiamo il Moncenisio, stavolta tutti insieme, e svalichiamo verso Susa. Da lì, lo statalone deserto e bollente che percorre la val di Susa verso Torino. Rombiamo attraverso città fantasma e montagne che via via diventano colline e poi campagna, e finalmente incrociamo l'autostrada. La prendiamo per un breve tratto, quello che basta per coprire la distanza fra Torino e le Langhe. Le nostre velocità sono diverse, ci perdiamo fra di noi nell'assolata anonima autostrada piemontese, e ci ritroviamo in una stazione di servizio.
Usciamo dall'autostrada a Ceva, risalendo la boscosa valle Tanaro (il Missouri italiano, a quanto pare: avrebbe dovuto essere il fiume più lungo del Bel Paese, in quanto più lungo del Po alla confluenza con quest'ultimo) verso il col di Nava, altro luogo a noi caro, per chiudere in bellezza.
Sulla cima del Nava ci sdraiamo sul prato, scassandoci i panini preparati da quella ragazza romana che ha la drogheria proprio lì (da Roma a Nava è degna di nota), parlando del giro, dei posti più belli, dei momenti più divertenti, delle curve più spaventose. Dopo qualche giorno di mente riempita solo dal bello e dal nuovo, si affacciano nuovamente pericolosi pensieri su varie cose lasciate in sospeso. Cerco di distrarmi ancora un po', e con Nico ci inoltriamo nel forte in cima al colle. Ne commentiamo la bellezza, assaporando il silenzio di pietra umida, dopodiché vuotiamo le vesciche contro il muro. Sia mai che le cose si facciano serie.
Finisce così il nostro viaggio, e l'era della coda di volpe. Dopo aver volato insieme a me per un migliaio di chilometri, attraverso le foreste, le vette, i laghi, viene rubata da qualche morto di fame nella civilissima e pulitissima Bordighera, durante il concerto dei Mad. Che peraltro suonano da Dio, giustificando pienamente l'assenza di Sax finora in questa storia, ma la perdita del mio macabro amuleto sul sissy mi irrita oltremodo e mi guasta la serata. Specialmente se mi chiedo i motivi per cui uno dovrebbe rubare una cosa del genere. Voglio dire, già ha poco senso comprarla. Ma rubarla? Ma che cazzo te ne fai?
C'è sempre un'età di transizione fra un re ed un altro. La si spende spesso in casa di altri, a volte in compagnia di belle storie, a volte in compagnia di un'amarezza sepolta, occasionalmente dissotterrata da parole lasciate lì per caso, e raccolte improvvidamente. Non è più il fango a dominare i miei pensieri, bensì qualcosa di più reale, ma altrettanto lontano, qualcosa che già temo, non farò in tempo a raggiungere.
Una volta comunicare con qualcuno era fisicamente difficile, nel senso che era estremamente complesso lanciare al di là di un oceano la propria voce, richiedeva una certa abilità, e qualcosa da dire. Oggi è un diverso tipo di difficile. Altrettanto insormontabile, a volte.
L'impressionante collezione di radio antiche del compianto nonno di Carlo è testimonianza di un'altra età, una che stiamo perdendo, e che dovremmo forse sforzarci di capire. Una delle più belle serate dell'estate è passata nella penombra di un giardino quieto, seduti in silenzio su delle sdraio da cortile, ad ascoltare una dolce e deliziosa signora suonare un pianoforte da dentro casa.
Ca è il primo a partire. La chiamata dall'oltreoceano che tanto gli è cara arriva anche stavolta, e lo vediamo partire un po' a malincuore, sapendo che passerà molto altro tempo prima di rivederlo. Reagiamo come sappiamo fare: rivolgiamo la nostra furia sui nostri poveri motori, malcapitate bottiglie di birra, sbadati turisti che rischiano di ammazzarci in macchina.
Ben tre volte accade: in una di queste un camperista invade la mia corsia mentre lo sorpassavo, lo evito per un soffio e mi fermo a lato della strada, col cuore in gola. Un'altra invece è molto più "tranquilla", ma degenera subito dopo quando mi metto a litigare con l'autista: arriva Nicola e gli bestemmia a muso duro di fronte.
Di quella scena ricordo il grottesco sguardo di disprezzo della moglie del tizio, seduta in silenzio, una maschera di rughe e trucco pesante. Sembrava Moira Orfei. Forse era Moira Orfei. Ho forse dato dello stronzo al marito di Moira Orfei? Non me lo perdonerei mai. Ma è ancora viva Moira Orfei?
Con Wayne (chi sennò) ci regaliamo una giornata a Montecarlo. A giocare al casinò? No, finire in prigione per debiti non mi attira. A rimorchiare belle donne? No, ci bastano quelle su Pornhub - purtroppo. Andiamo al decathlon, a comprare una tenda e altre robe per il campeggio. Poi un bel panino da 20 euro sul lungomare di Monaco, e via a casa con 38 gradi e un motore raffreddato ad aria. L'atmosfera tropicale delle Calandre di Ventimiglia non fa che aumentare la beffa.
Si avvicina quell'inutile e deprecabile festività del Ferragosto, dunque cosa c'è di meglio che prendere le moto e andare a trovare un vecchio amico? Il colle della Lombarda è stato uno dei primi passi alpini a cui siamo arrivati, ben otto anni fa. Otto. OTTO. Che non vuol essere enfatico, solo era un altro tormentone idiota, ripetere OTTO o PAOLO a caso.
Si sale per il Tenda, io Brigg e Nico. La coda è lunga e sempre più bassa rispetto al tunnel, da quando hanno messo il semaforo. Spero si sbrighino a levarlo perché toglie un sacco di divertimento.
Dopo il tunnel scendiamo verso Borgo San Dalmazzo, poi prendiamo a destra, verso il colle della Madda e Lombarda. Per non farci mancare nulla, mi si allenta un bullone dello sfiato teste e quando lo riavvito si spacca completamente. Fa nulla.
Avevo dimenticato la bellezza abbagliante della Lombarda. Subito dopo il ponte ci sono degli stretti tornanti, come se si salisse una scala per una valle nascosta. Appena esci dal bosco e cominci a salire sull'altipiano, ti accorgi del verde tutt'intorno, i pini dall'aria fiabesca, i fiori viola. Sembra il paese dei troll.
Da un lato della valle c'è il monastero, ma per andare verso il passo e la Francia si sale sul versante opposto.
Ci spacchiamo di panozzi e patatine, mentre un bimbo mi osserva. Credendomi francese parla ad alta voce alla sorella: "Ma secondo te quello con la barba è arabo?". Ci vestiamo per ripartire e lo saluto, "Walekum salaam". Ci aspetta la discesa dal lato francese, verso Isola.
Ma di cosa ci lamentiamo poi? Ma che vita viviamo, ce ne rendiamo conto? In fondo non è male, se basta una canzone per sentirsi allegro per nessun motivo, dunque per tutti i motivi del mondo.
Mio fratello, dopo tutta la strada che ha fatto, e che ancora ha da fare, può prendersi un momento di relax à la "Piscine", sotto il sole di agosto; dei russi stranamente discreti, accanto a noi, brindano con una boccia di Coca Cola in un secchio di ghiaccio. Loro sì che si sanno trattar bene.
Non come noi, ridotti a bere tequila dai bicchieri di Peppa Pig.
La serata trascorre quieta sul terrazzo del Mitch la sera di Ferragosto, prima che lentamente mi renda conto di sentirmi giudicato dalla luna. Qualcuno accanto a me espone una verità che so di sapere, e cercavo di ignorare, e non riesco a reggerla. Esco per un giro nella notte fresca, completamente ubriaco.
La luna mi accompagna fino a Mentone e ritorno, ricordo le facce stranite dei gendarmes mentre passo la dogana. Mi fermo al lungomare, spengo la moto, guardo la spiaggia buia.
Mi arrivano le risate di alcuni ragazzi e ragazze seduti poco lontano. In terra è bagnato, deve aver piovuto. Riaccendo la moto e torno indietro. Tempo totale della sosta: 80 secondi.
Ricevo una chiamata da Richi mentre sto tornando indietro, si scusa per non ricordo che cosa.
La luna regna. Regna dappertutto, spietata per la luce che getta su alcune cose. E' passato troppo tempo. Bisogna tornare altrove.
Sax il venerdì viene a portarmi la sua tenda, l'indomani lavorerà tutto il giorno, ci raggiungerà solo a sera per il ritorno della Wild Lemonade.
Inizia un lento blues nella mia mente, le cose cominciano a sistemarsi. Lo accompagno fuori dal cancello, e mentre riprende la moto mi saluta con una stretta di mano, dicendo "Ci vediamo in cima allora".
Cap. 5: Fire On The Mountain
Niente di meglio per prepararsi ai tempi che verranno, che salire in montagna durante una tempesta di fine agosto. Per questo non lo facciamo e aspettiamo a partire: per non bagnarci troppo, che siamo delicatini. Scherzi a parte, c'è chi se ne sbatte talmente tanto del meteo che appiccica sul serbatoio la mappa per fare un percorso alternativo in sterrato. Che rimane comunque impraticabile per la quantità di fango prodotta dal temporale, ma Andre ci prova comunque, salendo sulla sua ever-so-fucking-ready Transalp.
La strada diventa bagnata, cala un freddo umido che penetra malignamente sotto le giacche. Al di là del tunnel però non piove, c'è solo una lieve nebbia bagnata, che rende ovattate e sfumate le cornici delle cose.
Ma guarda un po', tutto diventa relativo: quella che può essere una giornata parecchio schifida per un 20 agosto, diventa una festa per un grasso lumacone che non aspettava altro per sbavare in giro.
Riflettiamo un attimo sul da farsi: l'umidità eccessiva cambia decisamente i piani; oltretutto, essendo partiti tardi per evitarci il grosso del temporale, siamo anche arrivati tardi, dunque i supermercati non sono più aperti per rifornirci di bonza e cacahuète per la consueta festa in quota.
Cambiamo dunque programmi: si va comunque in quota a montare le tende, dopodiché si torna giù a mangiare e aspettare Sax il normanno, poi si risale su a farci il bicchiere della staffa accanto ad un bel fuocherello.
Non ricordo un altro anno in cui avessimo beccato un tempo così fradicio. Neanche il primo, quando fummo costretti ad elemosinare dell'alcool alle dieci di sera per accendere il fuoco.
Andre e il talpone si prestano a funzioni di muletto, portando su merci e persone.
Sembra di stare sulle Ande, ma alla fine riusciamo a montare le tende, e possiamo tornare in città; non fosse altro per una quantità incredibile di rivoltanti mosche uscite da chissà dove.
Ma alla fine l'arrivo che aspettavamo ansiosamente avviene: Sax è di nuovo fra noi, galvanizzato per il suo primo vero giro con la sua nuova motazza, un'Honda Hornet che aspetta solo il battesimo del fuoco, e elettrizzato per la fresca salita in solitaria verso il Tenda, al buio.
Ed ora è qui, e questa strampalata spedizione comincia già a somigliare un po' di più ad un'avventura. Entriamo in pizzeria e diamo il via al nostro solito circo, rovesciando bottiglie, ridendo sguaiatamente, raccontando assurdi racconti, dalle evidenti falle logiche (come avrebbe fatto la vecchia a cadere, per poi aprirvi la porta, e poi farsi aiutare a rialzarsi Sax? Ha strisciato per terra? Qui c'è un evidente falla logica). Finita la cena, con l'evidente sollievo di cuochi e cameriere, prendiamo settordici bottiglie di birra e ripartiamo verso la montagna, ormai completamente al buio, un moloch nero nell'ombra. Viaggiare per i boschi di notte fa un certo effetto, soprattutto in moto, quando le luci dei fari illuminano fiocamente alberi e strane rocce, proiettando l'immaginazione nella realtà per un breve attimo. Ma alla fine siamo su, e con l'aiuto di un po' d'alcool parte un debole fuoco, quello che basta per riscaldarci e proteggerci un po'.
La mattina dopo il mondo splende, come sempre capita in montagna. Un lieve strato di fresco avvolge le cose, come se fossero incartate e nuove di zecca. Le stesse strade ieri affogate dalla nebbia, oggi rivelano nuove direzioni.
La direzione da prendere oggi è innanzitutto quella verso un bagno, devo fare la cacca. Ma prima, sosta per acqua fresca alla fontana dei Tres-A.
E' veramente un bel mondo il nostro.
Mezzi vecchi e nuovi aspettano il loro turno, mentre bighelloniamo un po' alla baita vicino al lago e al confine con la Francia, che raggiungiamo poco dopo.
Attacchiamo la Bonette con rabbia e immotivato disprezzo. Mi diverto un mondo, e arrivo abbastanza in alto, prima di accorgermi che non ho nessuno dietro. Magari si sono fermati a far foto, penso. Mi rilasso e faccio foto anch'io: d'altronde la vista non è affatto male.
Ma passa veramente troppo tempo, e comincio sul serio a preoccuparmi: da dove sono riesco a vedere la strada per chilometri, e fin dove riesco a vedere, non c'è traccia degli altri. Decido di tornare indietro, e non ho fatto molta strada prima di vederli salire con aria afflitta. Mi affianco a Richi che chiude la fila con una faccia funerea e gli chiedo che è successo. "Sono scivolato", mi fa. Seguono parole irripetibili.
Fumo blu e cielo arancio, mentre ci avviciniamo per un'altra volta al giro di boa della vetta. Il paesaggio cura le ferite e l'orgoglio; un po' di sangue e graffi valgono forse la conquista di una vista superiore, una capace di sopperire alla mancanza di lungimiranza e saggezza nelle cose che richiederebbero una maggiore attenzione da parte mia. Almeno questo è quello che penso, euforico e stranito, finché non spengo la moto e vedo Richi che nonostante la limata sorride. Dopo tanti anni, il posto più bello che posso aver raggiunto è quel tipo di sorriso, quello che ti concedi in faccia alla stortura che a volte le circostanze prendono.
Insomma, le montagne hanno un loro modo di farti sentire umile e riconoscente. A volte avviene attraverso una serata all'addiaccio in mezzo alla fanga, a volte devi angosciarti per una limata dal nulla, altre volte ancora ci vuole il bruciore di stomaco per i capperi, per ricordarti di quello che hai, e di quello che puoi raggiungere (ovvero un digestivo).
Ma ora ci aspetta il durissimo canyon del Tinée. Durissimo perché collega la Bonette direttamente con Nizza: da quest'ultima risale un vento fortissimo e caldo, che soffia e spazza le gole senza tregua. Siamo controvento, curvando attorno alle garitte sul fiume là in basso.
Nico è bello incazzuto per l'ultima corsa verso la costa. L'ultimo tratto del canyon si apre improvvisamente, uscendo dalle montagne, e l'aria comincia a profumare di salmastro.
All'ultima sosta, sulla corniche sopra Nizza, ci sdraiamo nell'aiuola, distrutti dal caldo e dalla sete. Ci dissetiamo con un po' di Redbull, che sarebbe ora cominciasse a sponsorizzare i reni di Nicola, poi ci ributtiamo nella mischia, arrivando a casa verso sera.
Per certi versi, tornare da un qualunque giro, o viaggio, o raid, somiglia da vicino ad un doposbornia. Quello che credevi di aver risolto andando in cappella completa, al tuo ritorno sulla terra è sempre lì. La soluzione solo raramente viene raggiunta risolvendo quel problema. Il più delle volte, basta non smettere di bere.
Rimane una settimana precisa prima del mio ritorno a Roma, mi sparo le ultime cartucce sulla mia stradina preferita. In città siamo rimasti in pochi, anche Alig torna a Modena. Ci lascia un meraviglioso pensiero per il viaggiatore, liberamente ispirato dai fatti dell'anno scorso; una poesia dedicata alla forza che ci facciamo a vicenda, sapendo che ci ritroveremo, prima o poi, di nuovo insieme per strada.
"Ode alla benna"
"La benna allunga il suo saggio ma severo braccio sopra ognuno di noi.
E noi, impotenti contro il mondo, sotto di essa ci ripariamo..
Oh viandante che vai a lungo errando! Vorrai tu trovar rifugio nel tuo coraggio..
O dalla suprema forza della benna ti farai tenere in grembo?"
Il fuoco sulla montagna mi ha caricato, sono motivato quel che basta per pensare, per una volta, anche al futuro che viene dopo quello che mangerò la sera. Ma forse non ho compreso appieno gli avvertimenti che quel fuoco cercava di dirmi.
La terra brucia quella sera; la terra trema quella notte. Il risveglio alle notizie che arrivano da più in giù, nella nostra meravigliosa terra, è straziante. Ancora più straziante è sapere di essere svegli, che neanche il sonno ci difende.
Quella sera faccio il giro lungo, per evitare le pattuglie sull'Aurelia. Per tutta la serata un caldo afoso, un po' innaturale, ed uno strano odore nell'aria. Quando arrivo a Coldirodi, e vedo la collina in fiamme, capisco cos'era, e guardo a metà fra l'affascinato e l'inquieto il rogo che si consuma alle spalle della città, persa nei suoi giochi rutilanti di fronte al mare. Come un avvertimento dei boschi.
Me ne vado ripensando all'ultimo tramonto verso ovest, in uno di quei pomeriggi che regalano una vista clamorosa: vedi tutta la costa, penisola dopo penisola, perdersi in lontananza. Sono visioni così a farmi andare in moto, l'ultima visione che avrò quest'estate.
Chiaramente non si scappa troppo lontano dall'idiozia: nella foga pre-partenza decido di cambiare le pastiglie posteriori, ormai frolle dopo tutte le pistonate sui monti. Ma anche il più semplice dei lavori diventa melma fra le mie mani; e neanche Cecco riesce ad aiutarmi: una pasticca rimane frenata. La mattina della partenza, dopo 20 km, fumava manco fosse un tabagista cubano; la migliore soluzione che mi viene in mente (dunque forse la peggiore per qualunque persona dotata di serietà), è quella di levare la pastiglia, e di viaggiare senza freno dietro.
Oh well.
Va bene comunque, anzi non potrei chiedere di meglio, che essere solo contro la pioggia che piano piano si avvicina.
Belìn in realtà sto veramente bene, carico come un elettrone, pronto a frizzare in aria se colpito da un fulmine.
Mi serve tutto, ma forse nulla di più di questa smania incessante che mi percorre certe notti, e mi rende insonne, mentre percorro una strada che non ho mai fatto, parlo una lingua che non ho mai imparato, vedo foreste e rocce e occhi e laghi e fiori e fiumi che non ho mai osservato, e mordo la polvere, e digrigno i denti, e sguazzo sull'erba, e mi sporco i pantaloni, e mormoro insulti, e mi attacco al manubrio, e rido come un matto, per cose che solo io ho sentito.
E poi, mi sveglio. E rimane un solo pensiero.
Roma.
Merda. Sono ancora soltanto a Roma.
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